Trasferte effettuate con continuità: per la Cassazione sono Esenti

Trasferte effettuate con continuitàCon la corposa Sentenza n. 27093 del 15 novembre 2017, la Corte di Cassazione torna ad affrontare il complesso argomento del trattamento previdenziale e fiscale delle somme corrisposte ai lavoratori nel caso di Trasferte effettuate con continuità.

Nel caso in esame, la Suprema Corte ha affermato che si configura il trattamento fiscale e previdenziale tipico del 50% dell’imponibile del trasfertista, solamente quando si verifichino contemporaneamente le tre seguenti condizioni:

 

 

  • assenza dell’indicazione della sede di lavoro nel contratto di assunzione;
  • attività lavorativa che richieda continua mobilità del dipendente;
  • attribuzione al lavoratore di un’indennità indipendentemente dall’effettiva prestazione in trasferta

In assenza di anche uno solo dei precedenti requisiti, in luogo del trattamento riservato ai trasfertisti, va applicato il regime previdenziale e fiscale dell’indennità di trasfertaanche se quest’ultima viene effettuata con continuità.

I DETTAGLI DELLA SENTENZA

Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione parte da una Sentenza della Corte d’Appello di Torino, con la quale il Titolare di una ditta individuale era stato condannato al pagamento dei contributi dovuti sulle somme corrisposte ai propri dipendenti a titolo di indennità di trasferta, nella misura di cui all’art. 51, comma 6, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi – TUIR).

La Corte d’Appello ha sottolineato che la suindicata ditta individuale svolge lavori di impiantistica in cantieri itineranti posti in luoghi sempre diversi e variabili e corrisponde ai propri dipendenti, nei giorni di presenza e di svolgimento di attività al di fuori del Comune dove ha sede, un’indennità di trasferta giornaliera non eccedente i limiti di cui all’art. 51, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986.

La suddetta indennità non viene corrisposta quando i lavoratori svolgono mansioni di preistallaggio presso la sede della ditta, ovvero attività presso terzi all’interno del Comune dove ha sede la ditta.

Dall’istruttoria svolta dalla Corte d’Appello è emerso che, invece, nel caso in esame va applicato l’art. 51, comma 6, del d.P.R. n. 917 secondo cui, a prescindere dalle modalità di pagamento, il datore di lavoro è tenuto a versare i contributi dovuti all’INPS sull’indennità corrisposta ai dipendenti nella misura dovuta per le indennità dei lavoratori c.d. trasferisti (50% del valore dell’indennità).

Il Datore di Lavoro ha, quindi, promosso ricorso per Cassazione di tale sentenza di condanna, per avere la Corte di merito ritenuto che i contributi dovuti sull’indennità di trasferta corrisposta dalla ditta ricorrente ai propri dipendenti debbano essere assoggettati al regime di cui all’art. 51, comma 6, e dunque commisurati al cinquanta per cento del valore dell’indennità stessa, benché detta indennità non venisse corrisposta se i dipendenti prestavano la propria attività presso la sede dell’impresa ovvero presso cantieri situati entro un raggio di 20 km dal Comune dove l’impresa stessa ha sede. 

Secondo la Corte di Cassazione, quindi, Il problema da risolvere è quello di stabilire se il trattamento contributivo da applicare in concreto alle indennità corrisposte dalla ditta ricorrente ai dipendenti sia quello previsto per i “trasfertisti occasionali” dall’art. 51, comma 5, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi – TUIR) oppure quello stabilito per i “trasferisti abituali” dall’art. 51, comma 6, del TUIR, sul quale è intervenuto inoltre l’art. 7-quinquies del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193. 

LA PAROLA ALLA CORTE DI CASSAZIONE

Nella giurisprudenza di questa Corte è pacifico che:

a) la nozione di trasferta è caratterizzata:
1) dal trasferimento del lavoratore in un luogo diverso da quello abituale per svolgere l’attività lavorativa;
2) dalla “temporaneità” del mutamento del luogo di lavoro;
3) dalla necessità che la prestazione lavorativa sia effettuata in esecuzione di un ordine di servizio del datore di lavoro e dalla irrilevanza del consenso del lavoratore;

b) sono considerati “trasferisti abituali” i lavoratori subordinati destinati a svolgere sistematicamente e professionalmente la propria attività quasi interamente al di fuori dalla sede aziendale.

La configurazione, in concreto, dell’una o dell’altra fattispecie si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, da effettuare prioritariamente sulla base della ricostruzione della volontà delle parti, desumibile dall’interpretazione delle specifiche pattuizioni contrattuali al riguardo, come tale incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato.

Peraltro, è indubbio che la trasferta, occasionale o abituale, è una situazione che rende di per sé più gravosa la prestazione e comporta per il lavoratore la necessità di sopportare delle spese (per i pasti, il pernottamento, i mezzi di trasporto ed altro) nell’interesse del datore di lavoro.

Alla luce della lunga storia della questione relativa alla determinazione del trattamento contributivo dei compensi per la trasferta, non si può certamente dire che la giurisprudenza di questa Corte in materia si sia sviluppata in modo lineare e univoco nonché armonico rispetto alle posizioni delle Amministrazioni del settore.

Questa è la situazione in cui il legislatore è intervenuto con l’art. 7-quinquies del d.l. n. 193 del 2016, introducendo una norma autoqualificata di “interpretazione autentica” del comma 6 dell’art. 51 del TUIR, con la quale ha stabilito (comma 1) che i lavoratori rientranti nella disciplina prevista dal suddetto comma 6 sono quelli per i quali sussistono contestualmente le seguenti tre condizioni:
a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro (elemento formale);
b) lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente (elemento sostanziale);
c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione “in misura fissa”, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta (elemento retributivo).

Ed ha aggiunto che, in caso di mancata contestuale esistenza delle suindicate condizioni, non è applicabile la disposizione di cui al comma 6 dell’articolo 51 TUIR, ma è riconosciuto il trattamento previsto per le indennità di trasferta di cui al comma 5 del medesimo articolo 51 (esenzione totale).

Si tratta quindi di una norma con la quale sono stati dettati criteri univoci per distinguere, ai fini contributivi (e fiscali), la situazione dei “trasferisti abituali” da quella dei “trasferisti occasionali”, superando il precedente criterio distintivo legato alla – variabile – ricostruzione della singola fattispecie di volta in volta esaminata.

Appare evidente che il regime contributivo (così come quello fiscale) devono comunque essere parametrati alla effettiva realtà del rapporto, non potendosi ipotizzare, ad esempio, che, in presenza dell’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità da parte del dipendente, la mancata indicazione della sede di lavoro, nel contratto o nella lettera di assunzione, possa servire come facile strumento per aggirare la normativa.

LA CONCLUSIONE

Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto che la ditta ricorrente – la quale svolge lavori di impiantistica in cantieri itineranti, corrispondendo ai propri dipendenti nei giorni di presenza e di svolgimento di attività al di fuori del comune dove ha sede, un’indennità di trasferta non eccedente i limiti di cui all’art. 48 (ora art. 51), comma 5, del TUIR – fosse tenuta a corrispondere i contributi dovuti all’INPS su tale indennità nella misura di cui all’art. 51, comma 6, del TUIR, dovuta per le indennità corrisposte ai lavoratori c.d. “trasferisti abituali”, in luogo del minore (o nullo) importo dovuto per le indennità corrisposte ai lavoratori in caso di trasferta (occasionale).

Tuttavia, non solo è pacifico che il suddetto compenso non è stato corrisposto in “misura fissa” ma risulta anche (p. 6 della sentenza) che i lavoratori svolgevano mansioni di preinstallaggio presso la sede della ditta nonché attività presso terzi, nel territorio del comune ove ha sede la ditta.
Pertanto, nella specie, mancano due degli elementi richiesti dall’art. 51, comma 6, TUIR, nel testo risultante dall’art. 7-quinquies.

Per tutte le suesposte considerazioni, il ricorso deve essere accolto.

Si ritiene di dover enunciare il seguente principio di diritto: l’art. 7-quinquies del d.l. 22 ottobre 2016, n. 193 (convertito dalla legge 1 dicembre 2016, n. 225) – che ha introdotto una norma retroattiva autoqualificata di “interpretazione autentica” del comma 6 dell’art. 51 del TUIR, risulta conforme ai principi costituzionali di ragionevolezza e di tutela del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche, oltre che all’art. 117, primo comma, Cost., sotto il profilo del principio di preminenza del diritto e di quello del processo equo, consacrati nell’art. 6 della CEDU.

Infatti, tale norma retroattiva ha attribuito alla norma interpretata un significato non solo compatibile con il suo tenore letterale ma più aderente alla originaria volontà del legislatore, con la finalità di porre rimedio ad una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, determinata da un persistente contrasto tra la giurisprudenza di legittimità, le Pubbliche Amministrazioni del settore e la variegata giurisprudenza di merito.

 

 

Fonte: Paghe Facili.

Facebooktwitterpinterestlinkedinmail